Monday, December 2, 2013

Il Pelourinho: i santi, gli uomini e Dio


1. Sono di rientro dalla UFBA, la Universidade Federal de Bahia, dove ho appena incontrato docenti e studenti del Dipartimento di Educazione e dove il mio amico Nelson Pretto, uno dei leader della pedagogia brasiliana, mi ha intervistato per la web TV del suo gruppo di ricerca. Nelson ha frugato tra le pieghe della mia formazione e ha scoperto cose - nel Web - che forse neppure io ricordavo. Nell'intervista ritorno così alla mia scuola elementare, alle lezioni del maestro Giberti, cineamatore, all'educazione all'immagine durante la scuola media, alle cineletture "somministrate" da Gigino Di Libero. No, non potevo fare altro che occuparmi di comunicazione educativa: certi incontri ti segnano, ti orientano, decidono molto di quello che sarai "da grande". E Nelson, che si era preparato a puntino per l'intervista, ha avuto la capacità di riaccompagnarmi attraverso quei ricordi. Gli sono grato, come quando qualcuno scopre per te qualcosa che pensavi di aver perso chissà dove.

2. La mattina era trascorsa tra il Pelourinho e il Mercado Modèlo. Chiunque sia stato a Bahia ha di certo preso l'ascensore che dal porto sale alla città vecchia. Poi, uscito sulla Piazza della Prefettura, ha preso a sinistra Rua da Misericordia incominciando a perdersi tra gli intonaci colorati delle case açoriane. Si arriva voltando a destra al Terreiro de Jesus: di lì o si scende verso la casa museo di Jorge Amado, sulla piazza del pelourinho, e si arriva a Nossa Senhora do Carmo dos pretos, o si prende a destra e si arriva alla meravigliosa Chiesa di San Francesco. Ci muoviamo sospesi tra l'ansia che ci hanno trasmesso con racconti di assalti e furti e il fascino del luogo. Il cielo è di un azzurro intensissimo, tagliato da pennellate di nuvole bianchissime. Man mano ci si addentra nella città vecchia, la tensione perde quota e la bellezza meravigliosa del luogo prende il sopravvento. Sembra di vedere Vadinho, il primo marito di Dona Flor, correre su e giù dalle ruas. Dalla finestra della casa museo il busto di Jorge Amado ti sorride.

3. Noosa senhora do Carmo è la chiesa degli schiavi. Al tempo della dominazione portoghese questa era una delle poche chiese della città che potesse essere frequentata dalla popolazione nera. E ancora oggi mantiene questo privilegio, curata da una confraternita in cui possono entrare solo persone di colore. Tutti i martedì pomeriggio, alle 18.30, la messa è celebrata con i tamburi e i canti della cultura africana. Cattolicesimo e Candomblé confinano, uno si inserisce nell'altro. Gli orishà, le divinità della religione animista che gli schiavi portarono con sé dall'Africa, venivano nascosti dentro le statue dei santi per non incorrere nelle punizioni dei portoghesi: ancora oggi ogni santo ha il proprio corrispondente in un orishà. Dentro la Chiesa un membro della confraternita ci spiega tutto l'orgoglio delle sue radici africane e ci mostra il cimitero degli schiavi dietro la chiesa. Oltre il muro una favela incombe. In questa città incredibile tutto si mischia, si contamina, diventa qualcos'altro a ogni angolo di strada.

4. Davanti alla chiesa incontriamo Ivan Carlos. E' un ambulante "autorizzato". Ci regala una manciata di fettucce di Nossa Senhora de Bonfim: legarsele al polso serve a ottenere l'intercessione dei santi, di tutti i santi cui la Bahia di Salvador è intitolata. La simpatia, la gentilezza, la dignità di Ivan Carlos ci conquista. Gli compro una collana fatta di sementi. Lui le vende: le fanno i meninos de rua che un'associazione riesce a tenere lontani dalla strada e dalla colla da sniffare proprio grazie a questo lavoro. Lo ascolto incantato raccontare i personaggi di Jorge Amado: ti sembra di veder materializzarsi da un momento all'altro Gabriela, Dona Flor o Teresa Batista. Ci spiega che quello che ha imparato glielo hanno insegnato all'Università: la Prefettura ha organizzato un corso per gli ambulanti; storia locale, comunicazione, marketing. Ivan Carlos ci dice orgoglioso che lui certo deve vendere, ma che si sente un portavoce della città. Mi regala una corona del rosario. Alla madonna del rosario riconosce la sua devozione tutta la comunità nera. Ivan Carlos mi garantisce di averla benedetta lui: "Colòca no carro! Fique con Deus!". Ficar in portoghese vuole dire tante cose, principalmente "stare". Ecco: credo che augurare a qualcuno di rimanere con Dio sia uno dei più bei saluti che si possano immaginare. "Fique com Deus vocé também, Ivan Carlos!". "Sempre!". Allontanandomi mi dico che questo è il Brasile. Sono commosso e l'ansia sottile della salita ha lasciato ormai il posto a un benessere pacificato. Prendiamo un coco verde all'angolo di una strada. La donna che ce lo vende aspetta a chiederci i soldi: vuole sapere se è abbastanza freddo. Povertà e gentilezza.

5. San Francesco è una delle chiese più belle di tutto il Brasile. Trionfo del Barocco portoghese, il suo interno intagliato nel legno è coperto da 900 chili di oro. Il chiostro contiene la più grande e incredibile collezione di azulejos di tutto il Brasile. Pensi che questa era la Chiesa dei Francescani, pensi cosa c'entri la povertà del Santo di Assisi con questo sfarzo incredibile. Pensi ancora che questa chiesa meravigliosa fu di fatto edificata con le donazioni "pro remedio animae" di tanti signorotti che si erano arricchiti con il commercio degli schiavi. Ma oggi, per una strana eterogenesi dei fini, la chiesa è lì a raccontare la storia del Pelourinho. Nera la nostra guida, nero l'ambulante che vende corone del rosario all'uscita, neri gli operai che stanno lavorando al restauro della chiesa, neri i commessi all'entrata e all'uscita. E' come se la città si fosse riappropriata della chiesa. E l'anima di questa città, non c'è dubbio, è africana.

6. Scendiamo verso il Mercado. Entriamo e vinciamo la tentazione di perderci tra i banchi degli artigiani che espongono le loro merci. Si sale al secondo piano. "Maria & Sao Pedro" ci aspetta. Sediamo in veranda. Una Brahma ghiacciata ci aiuta ad avere ragione del caldo. Ordiniamo vatapà, feijao fradinho, carne sol. Tutto è servito con abbondante farofa, anche di zafferano.  Davanti a noi la Bahia, i colori della primavera di Salvador, il rumore animato della vita che pulsa. Ficamos com Deus.


Saturday, August 10, 2013

Semiotica della GMG


Giovedì scorso sarei dovuto intervenire nella trasmissione di TV 2000 dedicata agli effetti delle GMG. Non potendo presentarmi in studio ho registrato una ventina di minuti di intervista che poi non è stata montata e quindi non è stata utilizzata per la trasmissione. Il tema dell'intervista era la "semiotica della GMG", ovvero la possibilità di leggere l'evento dal punto di vista comunicativo in ragione di comprenderne meglio i meccanismi e gli impatti sulle persone. Riporto di seguito una sintesi di quanto avevo risposto alla giornalista.

1. Media Event
Comunicativamente parlando la GMG è un media event. Di questa categoria di eventi (studiati da Dayan e Katz in un libro - Le grandi cerimonie dei media - divenuto un classico) condivide i tre aspetti qualificanti:
- sintatticamente: la GMG rompe la quotidianità del palinsesto televisivo e anche di quello sociale delle persone. Viene vissuta come tempo forte, in decisa discontinuità con le nostre occupazioni ordinarie;
- semanticamente: questa rottura serve a sovradeterminare di significato quel che viene comunicato. L'attenzione di chi partecipa (sul posto come a casa) viene richiamata e mantenuta in virtù di qualcosa che tutto concorre a sancire come eccezionale;
- pragmaticamente: i media event, come tutti i fenomeni rituali,  implicano la trasformazione di chi vi partecipa. Non si vive un'esperienza simile senza tornarne trasformati. La trasformazione dei partecipanti, dunque, è l'intento dichiarato di chi pastoralmente e comunicativamente allestisce l'evento.
Quest'ultimo, a ben vedere, è anche il vero problema che la coscienza del credente si pone: partecipare cambia veramente tutto? Si torna realmente trasformati? E' tutto solo emozione del momento forte che viene vissuto e poi tutto torna come prima o qualcosa di diverso di registra? [Sulla questione si può vedere la bella riflessione di Enzo Bianchi sulla Stampa del 28 luglio scorso].

2. Una situazione religiosa
Il linguaggio e le forme comunicative della GMG assomigliano moltissimo a quelli dei grandi raduni giovanili, come i concerti rock. Anche il funzionamento è lo stesso e si costruisce sul fatto che il tempo dell'evento è un tempo sospeso che, da una parte, comporta la rottura con il tempo ordinario, dall'altra chiede a evento finito il rientro nel tempo ordinario stesso. Questa sequenza di uscita-partecipazione-rientro è tipica dei riti di passaggio: in essi si abbandona il proprio stato, per rimanere durante il rito in una fase di soglia (limen), e poi riaggregarsi al corpo sociale alla fine del rito. Il funzionamento della GMG e degli altri raduni giovanili, da questo punto di vista, è analogo, con una differenza. Come Victor Turner ha fatto notare, eventi rituali "forti" come quelli religiosi hanno una struttura "liminale"; eventi rituali in senso più debole (come il carnevale o altre manifestazioni sociali o spettacolari) hanno invece una struttura "liminoide". Il suffisso "oid" dice di una somiglianza ma anche di una differenza. Ecco: potremmo dire che la GMG è liminale, gli altri raduni giovanili liminoidi.

3. Le aspettative dei giovani
I giovani partiti per Rio (come, in fondo, quelli che come me negli anni '70 raggiungevano Taizé per partecipare ai riti della Settimana Santa presieduti da Roger Schutz) secondo me avevano, hanno due aspettative principali. La prima è un'aspettativa di comunione orizzontale: fare relazione con gli altri giovani, stare insieme, vivere un'esperienza comunitaria. La seconda è un'aspettativa di comunione verticale: l'incontro con gli altri e l'incontro con il Papa vengono vissuti come via per l'incontro con Dio. L'andare oltre la propria dimensione individuale, il trascendersi in direzione dell'altro (orizzontale) e/o dell'Altro (verticale), è esattamente il senso che l'antropologia riconosce alla parola "religione". I giovani di Rio sono stati lì per fare un'esperienza religiosa.

4. Le GMG: una lettura diacronica
Nella storia comunicativa delle GMG ci sono almeno due cesure. La prima risale alla GMG di Denver, 1993. Fu la prima, per così dire, a copertura televisiva integrale. La seconda va rintracciata nella GMG di Madrid 2011, la prima in cui il Social Network abbia affiancato (e forse comunicativamente superato) i media tradizionali main stream. Ma al di là di questi aspetti è indubbio che le GMG siano vissute dei periodi storici che tenevano sullo sfondo e anche dello stile comunicativo dei tre papi che a esse hanno dato vita.
Dayan e Katz distinguono, tra i media event, le conquiste dalle incoronazioni (le competizioni, in questo contesto, ci interessano meno). Per intenderci: la diretta del primo allunaggio fu un evento di conquista; la diretta della proclamazione del nuovo Papa da Piazza San Pietro un'incoronazione.
Ora, all'origine, la GMG, nata nel 1985 da un'intuizione di Papa Woitila, ha le caratteristiche di una conquista: va letta come uno degli strumenti di cui Giovanni Paolo II dispone per vivere il suo pontificato "itinerante", per portare il messaggio della Chiesa in contesti scelti di volta in volta con precise intenzioni simboliche (e politiche).
Con l'avanzare della malattia, fino a Toronto 2002, la GMG si trasforma progressivamente in un evento di incoronazione: l'incoronazione di un Papa divenuto icona, l'ostensione del suo corpo sofferente, la proclamazione della sua disponibilità al martirio. Un senso, questo dell'incoronazione, che si conserva anche durante il pontificato di Benedetto XVI, il Papa teologo che probabilmente non aveva nelle sue corde la stessa dimestichezza del predecessore con le drammaturgie oceaniche.
Con Papa Francesco la percezione è di avere assistito di nuovo a una GMG di conquista. Conquista dei giovani, conquista degli scettici, conquista dei laici, dei non credenti, dei credenti che forse sono diventati meno credenti di chi non crede. Una conquista che passa attraverso la credibilità di una Chiesa povera e missionaria, umana e accogliente. E che si esprime attraverso l'abbraccio sorridente di un Papa sudamericano che ha però l'andatura e la salda concretezza dei contadini delle Langhe.

Sunday, May 19, 2013

Il cervello matematico


Venerdì e sabato scorsi sono stato ospite del Festival dell'Innovazione sostenibile di Forlì. L'invito è stato motivato dal mio libro Neurodidattica, nel quale lo scorso anno avevo raccolto il risultato delle mie letture e della mia ricerca in relazione al rapporto tra i processi didattici e di apprendimento e il contributo delle neuroscienze cognitive. Infatti la sezione del Festival nella quale sono stato chiamato a portare il mio contributo discuteva del rapporto tra apprendimento della matematica e neuroscienze.

1. Non mi sono occupato mai di didattica della matematica. Ma spesso ho usato la matematica per fare un esempio agli insegnanti in formazione di cosa significhi insegnare qualcosa in maniera decontestualizzata. O meglio. Sono le loro domande che mi hanno preceduto, subito dopo che magari avevo spiegato che un apprendimento per essere efficace e significativo dev'essere contestualizzato, non astratto: "Ma come si può rinunciare all'astrazione in matematica?". A questa domanda, qualcuno nel seminario forlivese, pare aver dato risposta a conferma, sostenendo che l'apprendimento della matematica è per forza innaturale: in fondo dell'astrazione non si potrebbe fare a meno! Eppure Enriques, la Castelnuovo, dei grandi matematici (e didatti della matematica) sembrano essere di avviso contrario. E le neuroscienze danno loro ragione. La nostra conoscenza è situata, muove sempre dal corpo, anche quando è astratta. Contestualizzare gli apprendimenti non significa necessariamente proiettarli su uno scenario real life: basta collocarli in situazione. La palla torna agli insegnanti di matematica!

2. Il "cervello matematico" non esiste. Nel senso che l'unica capacità matematica innata che abbiamo si riduce a un grappolo di neuroni localizzati nel solco intraparietale. Quei neuroni sono responsabili di quello che si chiama in termine tecnico "senso del numero". Esso consiste nella capacità che il bambino dimostra fin da piccolissimo (e che come specie condividiamo con altre specie) di distinguere piccoli numeri: l'1 dal 3, il 3 dal 5. Non è ancora un contare: è semplicemente capire che 1 è meno di 3. Evolutivamente  è molto probabile che questa capacità si sia fissata per ragioni di sopravvivenza: se loro sono 3 e io sono 1 meglio scappare; 3 mele sono meglio di 1 se sono affamato.

3. I neuroni che si trovano nel solco intraparietale non sono gli unici a essere coinvolti nel calcolo e nel ragionamento matematico. Nel cosiddetto "modello del codice triplo" i neuroscienziati (come Stanislas Dehaene) dimostrano che insieme a quei neuroni se ne attivano di altri due tipi: quelli che presiedono al linguaggio verbale (nell'area di Broca, emisfero sinistro), quelli che popolano le aree delle visione in zona occipitale. Questo significa che la matematica (e il suo apprendimento) non è solo questione di "neuroni del numero" (sempre quelli del solco intraparietale che durante la vita vengono "riciclati", "insegnando" loro a svolgere nuovi compiti), ma anche di visione e di linguaggio. Se non si riescono a "vedere" le figure geometriche, o le soluzioni, è difficile sviluppare attitudine per la matematica. Lo stesso vale per il linguaggio: è dimostrato che molto di quel che non si capisce quando si fa matematica riguarda la comprensione linguistica. Insomma nelle relazioni tra questi tre "codici" (numerico, visivo, linguistico) si celano i misteri dell'apprendimento matematico. Chi ha "il pallino" dei numeri, in fondo, lo deve in qualche modo anche alla sua capacità di gestire i codici linguistico e visivo.



4. Il bambino dagli 0 ai 10 anni, quando lavora sulle grandezze matematiche, lo fa impegnando la zona frontale e prefrontale del cervello. Questo significa che l'attenzione, la concentrazione, la riflessione giocano un ruolo fondamentale. Poi, man mano si cresce, si apprendono routines di soluzione, si memorizzano informazioni, e allora buona parte dell'attività di problem solving si sposta in zona parietale posteriore. In questo modo si lasciano liberi i lobi frontali di fare il lavoro di maggiore qualità. Cosa suggerisce questo, in termini didattici? Almeno un paio di cose. Anzitutto che il ruolo della memoria (ad esempio, le tabelline) è fondamentale, così come l'apprendimento di regole di soluzione, piccole routines. In secondo luogo che il ruolo dell'insegnante è fondamentale, forse ancor più che nel caso delle altre discipline.

Saturday, May 4, 2013

I limiti del visibile


Questa mattina si è concluso il secondo di due week end dedicati alla media education nell'ambito del corso di alta formazione che in Università Cattolica, insieme agli amici di Contorno Viola, stiamo conducendo sul tema della Peer & Media Education. Tra i vari temi che sono stati messi in discussione uno è tornato più volte: quello dei limiti del visibile. Mi spiego meglio. Mella giornata di venerdì, con i partecipanti (e, tra i formatori, con l'aiuto di Michele Marangi e Simona Ferrari) abbiamo lavorato sull'analisi di Facebook. Nello specifico abbiamo provato a far funzionare un doppio livello di analisi: il primo livello, semiotico, ci ha fatto riflettere sul profilo del Soggetto Enunciatore e sulla costruzione del Lettore Modello per comprendere i meccanismi di costruzione identitaria all'opera e le strategie di comunicazione attivate con gli "amici" che visitano il profilo; il secondo livello, conversazionale, ci ha portato a ragionare sul contenuto dei post, la loro frequenza, le conversazioni, i commenti, i tags, le condivisioni. A margine di questo lavoro, la domanda che da più corsisti è emersa era relativa al diritto dell'operatore di "entrare" nel privato delle persone attraverso l'analisi dei profili, anche se questo "lavoro" in fondo pare giustificarsi sulla base dell'intervento educativo stesso. Ho provato a rispondere delineando una sintetica storia del modo in cui i media, dall'avvento del cinema in poi, hanno articolato il visibile.

1. La categoria del visibile è sorliniana. Il visibile è quel che si vede quando si guarda un'immagine. Pierre Sorlin, in quel libro straordinario che è Sociologia del cinema, studiando il cinema del neorealismo, nota che nelle immagini di Rossellini, di Zavattini, di De Sica, quel che forse è più interessante non è tanto quello che il regista vuole farci vedere, quanto piuttosto quello che vediamo sullo sfondo delle vicende: ovvero l'Italia del secondo dopoguerra. Marc Ferro, storico delle Annales, lavorando sulla cinematografia sovietica degli anni Venti estende il concetto di visibilità a quel che nell'immagine non si vede. In buona sostanza: il visibile è quel che l'immagine mette in quadro e, allo stesso tempo, è il modo in cui consente allo sguardo dello spettatore di articolarsi. Notando che sempre al vedere corrispondono un sapere e un credere.

2. Il cinema classico, da Meliès agli anni '50, come faceva osservare Francesco Casetti nelle sue lezioni quando ero un giovane studente di filosofia interessato al cinema, costruisce lo sguardo dello spettatore in base alla massima: "Si vede quel che si vede!". Il vedere del cinema classico è un vedere certo, sicuro; mette in forma un sapere altrettanto sicuro, oggettivo; non c'è motivo di non credere che le cose stiano così come ci vengono fatte vedere. Quel tipo di sguardo, con il cinema moderno, viene corretto. Nel cinema moderno (il cinema degli anni '60, di Godard e Truffaut, di Bergman) "si vede come si vede": cioè il cinema "smonta" il suo proprio dispositivo, svelando il set, mostrando i microfoni in scena, facendo guardare in macchina gli attori. Il vedere del cinema moderno è un vedere problematizzante, critico; esso predispone un sapere di secondo livello, decostruttivo; il credere viene smontato, indebolito, sostituito dall'esercizio metodico del dubbio.

3. Il cinema postmoderno e la neotelevisione cambiano ancora le cose. In questo caso vale sempre più che "si vede quel che si vuole vedere". Il visibile si riduce al frammento che può essere isolato dal flusso entro cui è inserito, ricontestualizzato (come nella citazione postmoderna o nel blob), rimontato all'infinito in un gioco di continue risignificazioni. Il sapere che viene predisposto è un sapere locale: quel che so, lo so relativamente a quello che vedo e solo nel momento in cui lo vedo. Chiunque può fare altrettanto senza margini per una comparabilità, per una valutazione che in qualche modo consenta una generalizzazione. Il credere è labile, si consegna alla volontà e all'intenzione, si legittima autonomamente.

4. Quale tipo di sguardo predispongono internet e il social network? Qual è il visibile di Facebook? Giocando sui termini, mi verrebbe da dire che in Facebook "si vede quel che ci viene fatto vedere". In qualche modo questo significa tornare a recuperare lo sguardo del cinema classico, ma con una differenza sostanziale. Quello sguardo portava iscritto un progetto autoriale forte, eticamente consapevole. Nel cinema classico, come Bazin faceva notare, i due tabù della rappresentazione (l'amore e la morte) non vengono mai trasgrediti: si vede quel che si vede, ma nei limiti che al visibile impone il Soggetto Enunciatore. Nell'infosfera, nel social network, al visibile non vengono imposti limiti. Il problema passa al lettore, all'utente: è alla sua responsabilità che sta di ridefinire eticamente quei limiti che il visibile di suo non possiede più. Ecco perché più volte mi è capitato di ribadire che oggi la vera frontiera della media education non è quella del senso critico, ma della responsabilità. Dalla provincia ideologica si deve passare senza esitazioni alla provincia etica.

Friday, April 26, 2013

Semplessità e didattica


Nei giorni 23 e 24 aprile, insieme a Serena Triacca e Simona Ferrari del CREMIT e ai colleghi Sibilio e Rossi con i loro gruppi di ricerca, sono stato ospite di Alain Berthoz al Collège de France. Berthoz è un fisiologo. Il suo libro più famoso (e la ragione per cui tutti noi eravamo a Parigi in questi giorni) si intitola Semplessità. L'idea della semplessità proviene dallo studio del mondo biologico e si riferisce alle strategie attraverso le quali le specie viventi si adattano alla complessità circostante. L'ipotesi di lavoro, a Parigi, era di trovare dei punti di contatto tra la semplessità e la didattica, declinare didatticamente la semplessità.

1. Il lavoro di Berthoz, insieme alle letture in materia di neuroscienze degli ultimi anni, alla mia ricerca sul microlearning, ai tanti incontri di formazione con dirigenti e insegnanti sui neoapprendimenti e i media digitali, mi hanno suggerito una nuova metodologia di approccio al lavoro didattico che ho battezzato EAS: Episodi di Apprendimento Situato. Nei giorni scorsi La Scuola di Brescia ha pubblicato il libro che è il risultato provvisorio di questa ricerca (Fare didattica con gli EAS. Episodi di Apprendimento Situato). Già all'ultima edizione di "Teniamoci per mouse", l'appuntamento annuale degli insegnanti Mac users ne avevo sintetizzato la sostanza (cliccare qui per visualizzare le tre parti dell'intervento: parte 1, parte 2, parte 3).

2. Il metodo di lavoro che ci si è dati è stato quello del brain storming a partire da delle proposte di ricerca presentate dai partecipanti. Come lo ha definito Berthoz, "une confusion productive". Uno dei temi su cui la discussione ha ruotato è l'uso dei videogiochi nella formazione e nella didattica. Serge Tisseron, psichiatra da anni attento al rapporto tra media ed educazione, ha osservato come il videogioco si possa intendere come mondo semplesso, in cui le affordances coinvolgono anche il mondo interiore del giocatore. Di qui il suo possibile uso in chiave terapeutica e come strumento di educazione alla salute. In modo particolare quel che secondo Tisseron è interessante sono l'intenzione di azione e l'offerta di senso da parte degli oggetti del mondo virtuale. Ciascuno si costruisce la sua storia quando videogioca e finisce per assumere tre punti di vista: auto (soggettiva), etero (controcampo) e allocentrato (oggettiva irreale). Quando si guarda qualcuno giocare a un videogioco a un certo punto chi gioca finisce per usare il proprio avatar come un robot esponendolo al pericolo, ma in altri si preoccupa molto della sua salute. Insomma: empatia, simpatia, apprendimento sono legati.

3. La presentazione dell'Atelier d'espaces della Facoltà di Architettura dell'Università di Lovanio ha offerto lo spunto ai partecipanti per riflettere su alcuni concetti chiave come: corpo, situazione didattica, teatro. In fondo quello che gli amici di Lovanio propongono ai loro studenti è un EAS nelle sue tre parto costitutive: quella preparatoria, in cui il carico è sull'insegnante che deve immaginare la situazione didattica e costruire strumenti per accompagnarci lo studente; quella operatoria, consistente in un lavoro di produzione; quella riflessiva, in cui l'insegnante torna su quanto emerso insieme all'aula favorendone la comprensione metacognitiva. Sulla progettazione dell'EAS si è lavorato in modo particolarmente intenso, anche grazie al contributo di Didier Bottineau, linguista del CNRS.

L'appuntamento è per l'autunno, quando Berthoz dovrebbe essere in Italia e in un seminario ulteriore vi sarà la possibilità di riprendere e approfondire quanto messo a fuoco nella intensa due-giorni parigina.

Friday, April 12, 2013

Carezze digitali


Ieri si è spento mio papà. Avrebbe compiuto i 79 anni il 20 maggio. Si è spento mentre gli tenevo la mano sopra la testa, come lui faceva quando ero piccolo e insistevo per dormire nel "lettone". Quella mano sulla testa mi tranquillizzava. Era una mano che diceva: "Sono qui! Non temere!". Mi piace credere che anche attraverso il coma e al di là delle certezze della scienza medica ("Non sente niente!") lui avesse la stessa percezione di calma, di tranquillità: "Sono qui! Non temere!"

La morte, i ricordi, il senso delle cose - Mia mamma ci aveva lasciato quando di anni ne aveva 49. Un carcinoma se l'era portata via in cinque mesi. Preparavo Storia della filosofia antica in ospedale, mentre le facevo compagnia e in quel modo, chiacchierando con lei, condividendo con lei le scoperte di giovane studente di filosofia, mi illudevo di allungarle la vita, facevo finta che quel che i medici avevano già sentenziato non fosse vero. Mi ricordavo di lei, ieri, mentre il respiro di mio papà saliva progressivamente, si faceva più frequente e flebile. Mi ricordavo di tante cose, di tante occasioni mancate, di come tanti silenzi tra me e lui si sarebbero potuti riempire con un passo indietro o un passo in avanti, con meno orgoglio, usando la pazienza della com-passione. "Se avessi...", "Se sapessi...", "Se solo...". La morte rovescia i nostri punti di vista abituali. Restituisce alle cose il loro posto. Come il Witz dei romantici ti fa sorridere delle minuzie della nostra finitezza. Ieri ho percepito fortemente questa funzione di ristrutturazione del mio campo di esperienza: un senso di riequilibrio, tessere che vanno a posto, cose che adesso comprendi. Questo non toglie la sofferenza, il rimpianto, ma certo contribuisce a rasserenare, a crescere proprio attraverso il negativo che sei costretto a elaborare.

Le carezze dei media - Per tutta la giornata una trama di SMS e di mail si sono organizzate come in una drammaturgia perfettamente concertata.
Nella forma, dal punto di vista fàtico, il loro effetto è stato di grande calore. Che strano eh, la fredda comunicazione digitale che per chi non la conosce dovrebbe allontanare, invece avvicina! Calore, affetto, voglia di essere vicini: il tutto in punta di piedi, con la consapevolezza di non invadere troppo l'intimità dell'altro e di poter vincere il proprio imbarazzo nel farsi presenti. I tuoi amici ti si stringono attorno, ti dicono: "Ci sono!". E allora un SMS svela la sua vera funzione: è una carezza. Il medium è proprio il massaggio, come il vecchio MacLuhan scriveva.
Nella sostanza quella comunicazione si può leggere come un testo unico, pieno di saggezza, di spunti, di riflessioni: un aiuto a capire, a fare i conti con te stesso, a elaborare. Tra le tante, tutte profonde e per me credente motivo di preghiera e di pensare che attraverso di esse un'Altra Comunicazione ti voglia raggiungere, quella di Gianfranco. Ieri, al mio SMS in cui gli annunciavo la morte di papà, scrivendogli: "E' morto papà. Uomo complicato e tra noi una relazione complicata. Ma la morte poi ti riconcilia anche se ti lascia a struggerti con i se e con i ma", mi rispondeva: "...il rimpianto per quanto non è stato e sarebbe potuto essere è compagno dell'amore". Ho capito.

In chat con Chris - Rientrato a casa ieri sera, mentre sul divano rispondevo alle mail, mia nipote Christina, otto anni, mi cerca in chat su Google +. Mia sorella con le mie tre nipotine vive nel New Mexico: mio cognato, che è anche uno dei miei più brillanti exallievi di liceo, è un fisico e dopo il suo PhD alla Penn State University non è più rientrato in Italia. Come si dice, un cervello in fuga. Avevo raggiunto mia sorella lasciandole un messaggio privato in Facebook prima della sua quotidiana telefonata, così da prepararla. Ieri sera Chris mi cerca in chat.

.  .Christina   : Ciao zio. I'm sorry my mom cried did you?
 io:  Chris, as you probably know, Grandfather died this morning.Your mom loved him a lot. She is crying
Christina:  yea my mom cried a lot. I am sorry
io:  because she is not able to come to Italy for giving him her last bye bye
Christina:  yea no more planes
 io:  But it's sure
Christina:  yea I got to go
io:  that Grandfather nowadays is in the heavens with Lord
Christina:  yea I am sure
 io:  Do you know what
Christina:  what
 io:  you can do for him?
 Christina:  what
io:  A little prayer before going to bed. That's OK?
Christina:  O I did
 io:  Very nice my little dear
 Christina:  o thank you
io: Now Grandfather is watching you. He takes care of his little Chris.
Nella chat è poi subentrata mia sorella e credo che proprio in questa chat si sia riusciti a parlare di quello che veramente ci tocca nel profondo più di quanto non avessimo mai fatto prima. Nella chat di ieri sera, con l'Oceano e il Texas di mezzo, io ero seduto sul divano con Christina e con mia sorella. Non so se questo è famiglia digitale: so che mi sono ritrovato a fare catechesi alla mia nipotina e a elaborare con mia sorella qualcosa che appartiene al tessuto profondo dei nostri rapporti e della vita della nostra famiglia fin da quando eravamo piccoli. Carezze, carezze digitali anche queste.

L'affetto corre sul filo - Fratel Fausto è il rettore del Convento di San Domenico a Bologna. Ieri sera dovevo essere lì a ragionare dei registri comunicativi della comunicazione pastorale. Ci eravamo sentiti prima di ieri solo via mail per prendere accordi. Lo stesso era successo con don Pietro Guzzetti, parroco a Desio: questa sera dovevo essere nella sua comunità a ragionare con i genitori dei rischi e delle potenzialità della rete in relazione all'affettività degli adolescenti. Con entrambi sono intercorse telefonate profondamente consolatorie che mi hanno fatto presenti due uomini di Chiesa che di persona ancora non ho avuto il piacere di conoscere: due uomini capaci di farmi sentire un senso di comunità e di appartenenza. Il mio impegno è di essere a Bologna e a Desio quanto prima: li incontrerò come amici, anche solo dopo una telefonata. E il telefono mi ha consegnato altri momenti di intimità e riflessione: Simona, subito ieri mattina, Pasquale, l'amico di sempre ieri in serata, Enrica, proprio mentre sto finendo di scrivere questo post, molti altri... Tutti hanno avuto una parola, un cenno, un silenzio. Siamo veramente degli esseri plug-and-play, come dice Gee: senza gli altri valiamo poco, non andiamo lontani. Ecco, credo che i media in relazione alla morte (come in relazione a tutti i grandi eventi della nostra vita) aiutino a comprendere questa cosa: solo se siamo un Noi, solo se non ragioniamo da soli ma insieme, possiamo avere futuro e speranza.

La morte, la vita - Mio papà amava le calle. Diceva che sono fiori eleganti e aveva ragione. Gliele abbiamo messe intorno. Amava anche le cravatte rosse. E con una cravatta rossa farà il suo ultimo viaggio. E adorava Les feuilles mortes, che spesso suonava lui stesso sul Seiler verticale della sala. Due versi di quella canzone stanno sugli avvisi funebri: Et la vie sépare ceux qui s'aiment. Tout doucement, sans faire de bruit. Dolcemente, senza far rumore, si è mossa anche l'anestesista che ci ha raggiunto a casa poco dopo la morte di papà: doveva venire a impostare lo schema per la sua terapia del dolore. Lo ha trovato morto. La mia sorpresa è stata che quella anestesista, tanto competente e tanto straordinariamente sensibile e umana nel rapporto con i parenti, era Silvia, una mia exallieva di liceo. Ci siamo abbracciati. L'ultimo regalo di mio papà: la possibilità di provare l'orgoglio di aver contribuito a formare persone così.

Saturday, April 6, 2013

Educare ai media per educare alla cittadinanza



Il 10 gennaio scorso sono intervenuto a Rimini alla quinta edizione di Medi@tando, la convention della Media Education in Italia alla cui nascita avevo contribuito ormai qualche anno fa. In questi giorni la mail di una studentessa bolognese che ha perso gli appunti del mio intervento mi ha convinto, per consentirle di recuperarne la traccia, a farne un post nel mio blog.
Quello che in quella sede avevo voluto comunicare si può organizzare in una tesi e in tre passaggi argomentativi attraverso i quali giustificare le ragioni e farne vedere le conseguenze.

1. La tesi: la Media Literacy si è progressivamente spostata verso i temi della cittadinanza fino a configurarsi come la nuova educazione alla cittadinanza del XXI secolo (anche se paradossalmente le politiche educative sembrano andare in un diversa direzione, molto centrata sugli strumenti e appiattita sull'Education Technology, cioè sul problema degli apprendimenti).
Nel mio itinerario di ricerca ho contribuito a questo spostamento con:
- l'organizzazione del corso di perfezionamento in Media storia e cittadinanza, insieme all'Istituto Storico della Resistenza di Torino;
- la pubblicazione di un libro con lo stesso titolo curato insieme a Enrica Bricchetto e Fabio Fiore;libro
- la creazione di un Dipartimento di Media, storia e cittadinanza diretto da Elena Riva all'interno del mio centro di ricerca, il CREMIT.

2. Le ragioni di questo spostamento vanno cercate nella fenomenologia della nuova scena mediale, in particolare in tre aspetti:
- la mediatizzazione crescente della scena politica (lo "Stato sociologo" di cui parla Eric Neveu);
- la contrazione del mondiale nel locale (visibilità globalizzata, agency sempre più locale);
- la protesizzazione e la naturalizzazione dei media nelle nostre vite (la loro indossabilità).

3. La conseguenza di queste tre istanze è la centralità civile ed etica dei media nella mediapolis (Silverstone). Essa si raccoglie attorno ai tre verbi che aiutano Silverstone a definirne la natura, cui ne aggiungiamo un quarto che fa riferimento alla riflessione di Jenkins:
- apparire (la ridefinizione dello spazio pubblico e delle regole dell'accesso a esso; l'indebolirsi dell'esercizio del dubbio e del pensiero critico);
- rappresentare (tentazione di risolvere l'agire nella pratica discorsiva; venir meno della responsabilità verso le narrazioni che si producono e che si accolgono);
- controllare (la disintermediazione e l'iscrizione di potere);
- impegnarsi (qualità e forme della partecipazione, della condivisione, della collaborazione).

4. Cosa significa allora fare Media Education nella Mediapolis? Significa rispondere a tre questioni: cosa, come e per cosa?
a) Cosa = l'etica della Mediapolis: ospitalità, giustizia, sincerità.
b) Come = la didattica della Mediapolis: in scuola - curricolo trasversale, media come cornice di comprensione delle altre discipline, competenza digitale, centralità della questione metodologica; nell'extrascuola - Peer and Media (il rapporto con la prevenzione, la vicinanza alle Life skills).
c) Per cosa = la logica della Mediapolis: saper accedere, saper leggere e interpretare, saper comunicare.

Sunday, March 17, 2013

Il Papa, la comunicazione, lo Spirito

Papa Bergoglio in poche comparizioni pubbliche ha già scatenato entusiasmo, passione, una vera e propria febbre mediatica. Le ragioni vanno chiaramente cercate nella sua comunicazione. Francesco è un Papa che si è presentato con un "Buona sera" il giorno della sua elezione e con un "Buon giorno" al suo primo Angelus in Piazza San Pietro. E' un Papa che entra nelle case e ti augura "Buon pranzo". Parla a braccio, molto spesso. Fa battute ("Siete venuti a prendermi alla fine del mondo!"). E come molti commentatori hanno già osservato usa moltissimo il corpo: fà il segno dell'OK unendo indice e pollice, alza il pollice in cenno di intesa; abbraccia, dispensa baci sulle guance; si appoggia l'indice sulla fronte, usa la mimica facciale a commento di quanto sta dicendo. Tutto questo è molto sudamericano, ma corretto da una sobrietà, da una concretezza, da una saggezza tutta piemontese. Siamo molto lontani dalla comunicazione di Papa Ratzinger, lucida e consequenziale nella sua parte verbale, ma timida e sempre impacciata nella prossemica, nella gestualità, nella capacità di metacomunicare con il corpo il contenuto già affidato alla parola. La gente coglie questa discontinuità e risponde con un affetto che fa ritornare i più anziani al ricordo di Giovanni XXIII. Ma cosa dice questa comunicazione? Secondo me almeno due cose.
1. La prima. Papa Bergoglio opera decisamente sui registri della comunicazione informale. E' colloquiale, diretto. Tra il cerimoniale, la forma, il rituale, sceglie l'incontro vero con le persone, la sostanza, l'emozione del momento. Eravamo stanchi di una Chiesa incapace di leggere l'oggi, in stallo, prigioniera dell'equidistanza, della diplomazia, ingessata. Una Chiesa che comunicava come tutte le istituzioni comunicano: sopra le teste della gente. Il papa ha già spazzato via tutto questo. La gente lo ha capito, lo segue. Anche perché probabilmente questo Papa argentino non se lo aspettava nessuno e forse già ci stavamo rassegnando a pensare che avrebbe vinto la Curia, con le sue logiche.
2. La seconda. Il Papa che parla a braccio e infrange continuamente il cerimoniale mettendo a dura prova la capacità della sua scorta, dice anche un'altra cosa importantissima. Dice che il Papa è un uomo. Qui sta il filo rosso che lega il suo pontificato a quello di Ratzinger. Il grande teologo conclude il suo mandato dando le dimissioni: rompe quell'aura di mistero che ci aveva sempre fatto pensare al Papa come a qualcuno di soprannaturale. No, i papi si possono dimettere. Quello petrino è un servizio: la Chiesa è il popolo, non il Papa. Una scelta geniale che spiazza tutti e dà al Conclave un mandato preciso. Papa Francesco ricomincia da lì: ed esordisce da uomo. Il Papa come un fratello maggiore, uno di noi, uno che ti dice buon giorno e buona sera, che ti augura buon appetito, che puoi abbracciare come si fa con i vecchi amici. Lucia Pabon, una giornalista di Buenos Aires di cui sono amico, mi diceva oggi in Facebook che Bergoglio "es una persona muy humilde, sencilla, que ama a los pobres, es mas le decían "el cura villero"(de los barrios pobres) y que le encanta el mate que es la bebida tipica de la Argentina. Sin duda Argentina a sido bendecida y el mundo es como un plus en este año de la fe". Ecco: il Papa gaucho con la cuia del mate in mano è un'immagine molto efficace di questa umanità. E questa umanità viene sottolineata anche dalla "preghiera silenziosa", rispettosa di chi non crede. La mente corre a un altro grande gesuita che in diocesi di Milano avemmo la fortuna di avere come pastore e che proprio ai non credenti dedicò grande attenzione ottenendone in cambio una vera e propria forma di venerazione: il Cardinal Martini!
C'è molto da fare! C'è da recuperare il tanto tempo perso! C'è da rispondere alle sfide dell'oggi. Ma non c'è dubbio che Papa Bergoglio saprà essere all'altezza come dimostra l'immagine programmatica di una chiesa "povera per i  poveri". Mentre lo ascoltavo, oggi, all'Angelus non trattenevo la mia commozione, la stessa che sgorgava spontanea otto anni fa', guardando le pagine del Vangelo sfogliate dal vento sulle assi di legno che custodivano le spoglie mortali di Papa Woitila. Il vento dello Spirito...

Friday, February 1, 2013

Piccole scuole: un'occasione da non perdere



La realtà dei piccoli plessi (nelle zone montuose e rurali, come nelle isole minori) come quella delle sezioni di scuola in ospedale, rappresenta oggi, nel nostro Paese, uno snodo importante di discussione nella prospettiva delle politiche educative.
Da una parte, in tempi di spending review, si sarebbe tentati di ritenere che conservare organici in simili situazioni caratterizzate da numeri scarsi di studenti sia antieconomico e che quindi queste realtà debbano andare inevitabilmente a scomparire. Tuttavia, in una logica di servizio e di analisi culturale del fenomeno, occorre considerare che il venir meno della scuola in queste realtà comporterebbe gravi disagi agli allievi e alle loro famiglie, oltre a impoverire il territorio preparandone l’abbandono da parte dei giovani, costretti al trasferimento anticipato in città. Ma la questione si può considerare anche dal punto di vista didattico. La pluriclasse – situazione didattica maggiormente diffusa in questo tipo di contesti – può essere vista come una necessità, ma anche come un’opportunità. Infatti, in questo tipo di organizzazione del suo lavoro, l’insegnante è naturalmente portato a sperimentare metodologie e tecniche che in un’aula tradizionale non ottengono spazio rispetto alla lezione frontale: è il caso delle didattiche tutoriali, del lavoro in piccolo gruppo, del peer learning e del reciprocal teaching, della didattica per livelli. Insomma, la cosa interessante è che in queste situazioni, la precarietà si trasforma in ricchezza e la classe diventa con molta più facilità laboratorio di innovazione. Questo consente di presentare ai genitori la scuola nel piccolo plesso come un’opportunità e non come un ripiego.
Come CREMIT (Centro di Ricerca sull’Educazione ai Media, all’Informazione e alla Tecnologia) siamo impegnati ad accompagnare questi processi in alcuni specifici contesti: la scuola in ospedale in Regione Lombardia (Rivoltella, Modenini, 2012), la scuola delle isole minori in Regione Sicilia (il Centro è stato incaricato della formazione degli insegnanti di queste isole per l’anno scolastico 2012-13), la scuola dei plessi montani (a quest’ultimo riguardo sono ai nastri di partenza due sperimentazioni, una in Regione Liguria che fa capo all’IC di Sassello e alla rete di scuole di cui è scuola-polo, l’altra in Regione Emilia Romagna riferita all’esperienza del “Biennio Bardi”).
Con particolare riferimento alla scuola dei plessi montani (il CREMIT ha proposto una sperimentazione articolata, il progetto PIT-STOP, anche all’USR Lombardia) l’idea è di attivare un percorso a tre livelli nelle scuole interessate:
1) sul piano organizzativo, la messa a punto di un modello di scuola costruito su una dosatura della dotazione di organico, un uso intelligente della videocomunicazione, un sostanzioso ricorso alla didattica tutoriale;
2) sul piano didattico, l’aggiornamento degli insegnanti allo sviluppo di un nuovo approccio all’insegnamento basato sul “Metodo EAS” (Episodi di Apprendimento Situato). Il metodo è fissato nel volume di Pier Cesare Rivoltella: Didattica per EAS. Episodi di Apprendimento Situato, La Scuola, Brescia, in uscita a marzo 2013;
3) sul piano formativo, la preparazione di tecnici e tutor, questi ultimi da reclutare sui territori in accordo con le amministrazioni locali.

Tuesday, January 22, 2013

Educazione e cinema di animazione



Oggi a Bologna, presso l'Aula Magna del Dipartimento di Scienze della Formazione, si discute del rapporto tra educazione e cinema d'animazione (l'evento è promosso da Luigi Guerra e dal MELA, il laboratorio di Media Education del Dipartimento coordinato da Laura Corazza). L'evento mi ha suggerito alcune considerazioni al riguardo che condivido di seguito.

1. Non so se il cinema di animazione sia educativo; so che esiste:
- un cinema di animazione educativo;
- soprattutto, un uso educativo del cinema di animazione.

2. Certo il cinema di animazione, tradizionalmente, può funzionare bene in termini educativi in virtù del fatto che risponde a una logica di favolizzazione (Odin, 2005).
Questo rende ragione del fatto che gli adulti, genitori ed educatori, ne abbiano di solito una buona considerazione, non si pongano il problema di eventuali rischi cui potrebbe esporre i piccoli (a differenza di altri prodotti e generi): il cinema di animazione, ai nostri giorni, prende il posto della favola, anzi spesso ne costituisce la moderna versione (si pensi all'epopea Disney).

3. Cosa vuol dire che il cinema di animazione risponde a una logica di favolizzazione? Vuol dire che il suo funzionamento diegetico e di significazione è basato su alcuni dispositivi propri della favola:

a) la semplificazione. Il disegno schematizza, stilizza, coglie l'essenziale. Questo semplifica il lavoro dello spettatore: risiede qui la ragione per cui si ritiene che il cinema di animazione sia "per bambini" (anche se, poi sappiamo che non è vero);

b) la stereotipia. I personaggi nel cinema di animazione sono estremizzati nella loro caratterizzazione, corrispondono esattamente a quel che nell'immaginario diffuso viene a loro associato. Nel cinema di animazione, il cattivo è cattivo, raramente vi sono dubbi;

c) la simbolizzazione. Il tratto grafico riveste la realtà rappresentata di un vestito simbolico. Questo fa sì che con facilità, nel cinema di animazione, i personaggi, le cose, le vicende, prendano la distanza dalla realtà specifica, se ne astraggano, favoriscano l'universalizzazione. Inoltre spiega perché facilmente il cinema di animazione funzioni come un apologo e porti in gioco gli archetipi su cui la nostra cultura si costruisce.

4) Lo sviluppo dei processi di fictionalizzazione, in particolare l'avvento del cinema digitale, rende oggi più difficile distinguere ciò che è cinema di animazione e ciò che non lo è. In questo caso, l'animazione funziona esattamente al contrario rispetto alla sua tradizionale vocazione favolizzante: non risponde a una logica di simbolizzazione, ma di iper-realizzazione; invece di far lavorare l'immaginazione dello spettatore, la reifica, la materializza, facendo sembrare il fantastico assolutamente reale.

5) Quale lo spazio di un uso educativo del cinema di animazione, allora? Mi sembra che possa essere quello del controllo critico, come sempre capita nell'ambito della Media Education. Lo esemplifico in rapida sintesi in relazione agli aspetti finora portati in gioco:

a) semplificazione. La realtà è diversa dalla finzione. I gesti hanno i loro effetti, la morte è irreversibile, la violenza non è ritualizzata e non fa sorridere (come invece capita quando si assiste alle rocambolesche vicende di Vil Coyote alle prese con Beep Beep). Questo vale, probabilmente ancora di più, per il cinema digitale, nella misura in cui nel Fantasy esso consente di trasfigurare la realtà facendola sembrare diversa da come essa è;

b) stereotipia. Lo stereotipo semplifica e cristallizza la realtà. Occorre insegnare al bambino che il cattivo non lo è ontologicamente, senza possibilità alcuna di trasformazione. La realtà, inoltre, non è "bianco-o-nero": il mondo è fatto di un'infinita gamma di grigi, meglio, è a colori;

c) simbolizzazione. Il cinema di animazione contribuisce alla formazione del pensiero morale. Occorre saperlo e accompagnare il bambino a questo riguardo (si pensi, ad esempio, ai fenomeni di moral disengaging in rapporto alla violenza usata contro il cattivo, studiati in USA dalla scuola di Bandura e, in Italia, nelle ricerche di Dario Varin).


Riferimenti bibliografici

Bandura, A. (2002). Selective moral disengagement in the exercise of moral agency. In Internet, URL: http://www.stanford.edu/~kcarmel/CC_BehavChange_Course/readings/Additional%20Resources/Bandura/bandura_moraldisengagement.pdf.

Odin, R. (2005). Sulla finzione. Milano: Vita e Pensiero.