Friday, January 22, 2010

Educare ai media nell'extra-scuola


Il 22 gennaio si è svolto a Milano, presso la sede della Curia Arcivescovile, un convegno sulla Media Education e l'extra-scuola. Al centro dell'attenzione soprattutto l'oratorio (ma non solo) come spazio privilegiato per l'intervento educativo con e sui media. La giornata, costruita su due sessioni di lavoro, ha consentito di riflettere sia sui quadri teorici che sulle pratiche. Nel mio intervento, sulla base della sintetica descrizione del paesaggio in trasformazione dei media digitali, ho ragionato attorno a tre ordini di considerazioni.
Anzitutto l'individuazione di tre fatti nuovi che consentono di elaborare il tradizionale "scuolacentrismo" della Media Education. Il primo è che i "nuovi" media (come il cellulare e gli applicativi del Social Network) stanno spostando massicciamente il baricentro delle pratiche individuali e sociali verso l'informale. Questo comporta (secondo fatto) il vantaggio posizionale dell'extra-scuola: su questi temi può affiancare i giovani al di là dell'imposizione e degli atteggiamenti didascalici che magari la famiglia e la scuola possono suggerire. Infine (terzo fatto) mi pare si possa parlare a proposito del rapporto dell'extra-scuola con i media e i giovani di mediazione necessaria: la famiglia manifesta disagio (disagio nell'educare in generale, non solo nell'educare a un corretto rapporto con i media), la scuola accusa ritardo; spesso l'oratorio, il centro di aggregazione giovanile, ma anche i circoli e le associazioni culturali come qualcuno in sala faceva notare, sono l'unico spazio entro cui il ragazzo può attenere risposte.
Alla luce di questo possibile protagonismo si possono disegnare tre spazi di lavoro. Li definiamo così:
- fare i media. Il giornale on line dell'oratorio, il blog dell'oratorio, il canale You-tube dell'oratorio, la Web-radio dell'oratorio sono tutte modalità di lavoro possibili (spesso già realizzate) per costruire il protagonismo dei giovani in quanto "autori" attorno alla creazione di messaggi multimediali;
- fare con i media. Il podcasting per la catechesi (già praticato nella Diocesi di Milano per alcune iniziative a vantaggio dei giovani), SMS e Twitter per la comunicazione, Facebook per l'aggregazione e il gruppo, lo streaming per la comunicazione liturgica (come l'iniziativa di Don Paolo Padrini, a Tortona, dimostra: web-cam sul pulpito la domenica mattina e alcuni giovani ministri del culto che si recano nelle case degli ammalati con un portatile dotato di chiave usb per la connessione consentendo loro di seguire la celebrazione);
- riflettere sui media. Quale volto e quale identità in Facebook? Quale verità nella rete? Quali possibilità di promozione dell'uomo? Quale idea del bene e del male? Cosa è la religiosità dei media (digitali)? Quale spiritualità? Quale senso della Trascendenza?
Segnalo infine tre questioni da considerare possibili piste di lavoro.
Innanzitutto: quale spazio per i media nella formazione dei presbiteri dentro i seminari? Quale rapporto con la pastorale (soptrattutto giovanile) e la liturgia?
Seconda questione: come formare educatori, catechisti, educatori, animatori? Quale rapporto con la vita dell'oratorio?
Infine: quale supporto in funzione della produzione di materiali, dell'assistenza tecnica, della disponibilità dei servizi?
Si tratta di punti di discussione aperti dalla cui ricezione dipende la capacità di dare risposte che i giovani non possono aspettare di avere molto a lungo.

Saturday, January 16, 2010

I media, i giovani, l'educazione


Una giornata di studio dell'OEC su "Nuovi media e nuove relazioni. Dialogo, amicizia e identità cristiana" (Brescia, 17 gennaio 2010) mi fornisce lo spunto per un post in cui tornare a ragionare sul rapporto che pone in relazione oggi i media con i giovani e l'educazione.
Lo faccio enunciando tre brevi tesi:
1) i media sono un ambiente, sono parte dell'ambiente;
2) i media esigono e minacciano la mediazione educativa;
3) l'educazione ai media è educazione alla cittadinanza.

1. La natura ambientale dei media si costruisce su tre snodi. Il primo è un'evidenza fenomenologica: i media sono "migrati dentro le nostre vite" (Bell), li indossiamo (Silverstone). Questo dato (secondo snodo) comporta un cambio di paradigma concettuale nella loro comprensione: i media non sono (più) strumenti, ma uno spazio, o meglio, uno scenario di azione sociale (come si può dimostrare attraverso il recupero di una linea di riflessione che da Goffman giunge a Meyrowitz e come io stesso ho provato a far vedere in Costruttivismo e pragmatica della comunicazione on line). Su questo poggia (terzo snodo) la trasformazione del loro ruolo culturale: più che costituire lo spazio della circolazione delle informazioni, i media oggi sono piuttosto uno spazio importante per la costruzione delle rappresentazioni individuali e sociali.

2. Il paesaggio attuale dei media è segnato da almeno due linee di tendenza. La prima è costituita dall'autorialità dei media digitali (dagli applicativi 2.0 al telefonino). Questo comporta una trasformazione del ruolo del consumatore, che diventa consum-attore. In virtù di questo fatto, si assiste anche a una progressiva deprofessionalizzazione della comunicazione: il blogging, il microgiornalismo fanno sempre di più in modo che chiunque, in virtù della semplice possibilità di pubblicare nel Web, si ritrovi a gestire le stesse possibilità e responsabilità nello spazio pubblico che fino a poco tempo fa erano solo delle emittenti e degli editori. Il dato comune a questi fenomeni è rappresentato dalla de-mediazione (o disintermediazione): non servono più gli apparati, non occorrono più i mediatori.

3. Sul piano educativo, come è evidente, la mediazione impatta in maniera consistente. Anzitutto perché essa rafforza l'importanza dell'educazione non formale e della socializzazione a discapito dei compiti della scuola. Inoltre rafforza l'idea di un ritardo proprio della scuola rispetto alle sfide presenti, rilanciando il sospetto sulla sua reale utilità (nella misura in cui, ad esempio, i "nuovi" media sono in sostanza autoalfabetizzanti). Infine, consolida la crisi dell'autorità (o la convinzione che non serva). Ma proprio per questo, credo che rilanci l'esigenza della mediazione educativa: i media la richiedono (per gestirli non bastano skills operativi, servono frame culturali e critici), i giovani stessi la desiderano (come emerge dalle ultime ricerche sui consumi mediali).

Tuesday, January 5, 2010

Ieri era meglio di oggi?


Come è noto la carta stampata, più in generale l'informazione (anche quella televisiva e sul Web), nella nostra società funziona in larga parte come un gigantesco dispositivo di discorsivizzazione. Costruisce e fa circolare discorsi che normalmente esercitano una duplice funzione: allestiscono veri e propri racconti di emancipazione (come quando si tratta, ad esempio, di celebrare la capacità della tecnologia di abbattere le distanze, o di migliorare la scuola), o al contrario disegnano quadri preoccupati che allungano ombre sui destini della società o del genere umano (come quando in agenda vengono inseriti i temi dell'ambiente, della criminalità, del terrorismo). Questa doppia retorica, al cui fondo si riconosce comunque una logica di assolutizzazione e insieme di semplificazione del dato (spingo all'eccesso l'aspetto che mi interessa, eliminando l'impatto di tutte le altre variabili), risponde a criteri evidenti di notiziabilità: in particolare agisce sul pubblico nel rispetto della cosiddetta legge di McLurg (più vicino al pubblico è il fatto, più ha valore di notizia) e in relazione alla significatività di quel che viene raccontato rispetto al futuro sviluppo di una determinata situazione. Fatti che mi toccano direttamente sono più interessanti per me di fatti che percepisco come lontani; allo stesso modo, fatti che si dimostra possano incidere su cosa sarò o potrò fare domani paiono più rilevanti di altri che invece non sembrano avere questa capacità di impatto. Si tratta di una logica chiara e ben nota, non solo agli specialisti di comunicazione. Eppure molte volte ce ne dimentichiamo lasciando che questi discorsi costruiscano la nostra tappezzeria mentale. È il caso dell'idea dell'infanzia. Una recente ricerca del CREMIT, il Centro di Ricerca sull'Educazione ai Media, all'Informazione e alla Tecnologia dell'Università Cattolica, consente di capirlo indicando alcune evidenze su cui varrebbe la pena soffermarsi quando si parla appunto di bambini, di ragazzi, di minori.
La ricerca (condotta in collaborazione cone la Fondazione Oratori Milanesi e Pepita Onlus) ha eletto a proprio focus l'esperienza del gioco in un campione di 2500 soggetti tra gli 8 e i 16 anni. L'obiettivo era duplice: da una parte, verificare quali siano le abitudini di bambini e ragazzi rispetto al giocare, in particolare se e come la comparsa di giochi tecnologici (videogioci in testa) stia modificando queste abitudini; dall'altra parte, indagare sulla capacità degli adolescenti di sviluppare responsabilità verso i più piccoli se chiamati a svolgere compiti educativi. I risultati sono in netta controtendenza rispetto all'immagine di bambini e ragazzi cui veniamo quotidianamente socializzati.
Innanzitutto quel che emerge è il profilo di bambini e di ragazzi “normali”. Certo la normalità non fa notizia, ma fino a prova contraria costituisce ancora lo spazio più ampio di lavoro per chi si occupa di educazione. Non tutto è patologia, né ci cresciamo in seno sempre e per forza soggetti devianti, anche se la tentazione di crederlo è ricorrente, come Freinet indicava già alla fine degli anni Cinquanta riportando le opinioni degli adulti di allora: “Eh già! Non c'è da stupirsi. I ragazzi d'oggi fanno tutto quello che vogliono. Non c'è più autorità né rispetto. Quando eravamo giovani noi, nessuno osava replicare agli ordini del padre...”. Ecco, il dato rasserenante è che che i nostri ragazzi sono normali. Occorrerebbe ricordarsene, certo non per abbassare la guardia o per minimizzare certi loro comportamenti, ma per accostarsi secondo prospettive più equilibrate ai loro problemi.
Un secondo dato che la ricerca disegna con chiarezza è che il bambino è competente e il genitore assente. Il bambino è competente perché ci sa fare, dimostra di disporre di conoscenze e di abilità (soprattutto riguardo a Internet e alla tecnologia in genere); ma anche perché è più maturo di quanto non si pensi, più consapevole di quel che si sia disposti a credere. In compenso il genitore è tendenzialmente assente, due volte assente: assente perché ha pochissimo tempo da spendere per giocare insieme ai figli, ma assente anche perché quando c'è (è in casa o magari li accompagna al parco) non ci gioca. Si tratta di un'evidenza che suggerisce in modo chiaro due cose. Conferma anzitutto che l'idea di infanzia come quella di adulto sono delle rappresentazioni sociali. E indica che spesso noi continuiamo a usare rappresentazioni del bambino e dell'adulto inattuali: il bambino di oggi non è più quell'adulto in fieri, innocente, immaturo, senza difese che viene descritto dalla letteratura sociale del secondo Ottocento; allo stesso modo si dimostra datata l'idea di un adulto responsabile, capace di tutela e di educazione. Come un bel libro di Anna Mariani recentemente suggerisce, la fragilità è oggi categoria che per paradosso meglio si adatta all'adulto.
Chiaramente sono cambiate le condizioni sociali. L'adulto è sempre meno presente non necessariamente per scelta: entrambe i genitori spesso lavorano (anche se la crisi sta correggendo al tempo imperfetto questa constatazione); questo li porta a passare praticamente l'intera settimana fuori di casa; e anche se lavorano a casa, il tempo della loro permanenza è tempo lavorativo, non è tempo domestico; inoltre temi come l'autorealizzazione personale, la carriera, lo star bene con se stessi, funzionano da distrattori antropologici e finiscono per assorbire anche quei ritagli di tempo che rimarrebbero eventualmente liberi per i figli; per non parlare dell'incidenza della condizione di separati e divorziati per i quali il tempo da condividere con i figli diviene ancora più difficile da trovare e da gestire.
Uno degli effetti di questa situazione è che l'agenda dei minori si riempie, assomiglia sempre di più a quella di un manager. Tempo pieno a scuola fino alle 16.00, martedì e giovedì pomeriggio allenamento, lunedì e mercoledì pomeriggio corso di chitarra, venerdì club degli scacchi o piscina, sabato (o domenica) partita. Anche volendo, sarebbe difficile trovare uno spazio libero: occorre chiedere un appuntamento al proprio figlio, incrociare la nostra agenda con la sua, vedere se vi siano “finestre” libere da condividere.
Dunque, l'occupazione a tempo pieno del genitore produce come effetto l'occupazione a tempo pieno dei figli. Con due rilevanti conseguenze.
La prima. I ragazzi non giocano abbastanza. Uno dei dati più inattesi (e per certi versi inquietanti) che emergono dalla ricerca è che l'11% dei bambini tra gli 8 e i 12 anni dichiara di giocare meno di un'ora al giorno. È poco. E del resto se rimangno a scuola fine alle 16.00 e tornano dalle altre attività pomeridiane alle 18.00 o anche più tardi, di tempo per giocare non ne resta poi molto.
Seconda conseguenza. Quando il ragazzo è a casa, normalmente l'adulto non è presente: questo comporta che venga a mancare il controllo sulle sue attività in generale, su quelle di gioco in particolare. Si tratta di un problema rilevante, soprattutto per quanto riguarda i videogiochi cui dedichiamo l'ultima parte della nostra riflessione.
La ricerca conferma quello che tutti sanno: i videogiochi piacciono molto ai ragazzi. Anzi. Sono la loro attività preferita. La ricerca conferma anche quello che altre recenti ricerche sul consumo di videogiochi hanno evidenziato: i genitori conoscono ben poco dell'attività di videogiocatore dei figli, hanno consapevolezza che videogiocare per troppo tempo fa male, ma non dimostrano di avere consapevolezza che a volte il problema dei contenuti (violenti, ideologici, asociali) di un videogioco è educativamente ben più delicato di quello del tempo che il ragazzo ci passa davanti. Quello che la ricerca dice di nuovo è che lo stesso gradimento dei videogiochi lo riceve da parte dei ragazzi il giocare all'aria aperta con gli amici. I giochi di gruppo, di squadra, piacciono tanto quanto i videogiochi. Con sorpresa scopriamo che bambini e adolescenti di oggi non sono videodipendenti incalliti, tendenzialmente individualisti, chiusi in se stessi e nel mondo virtuale che abitano grazie alla Playstation, destinati a un futuro di obesità dalla loro dieta scorretta e dai loro consumi mediali sedentarizzanti. Rifa' capolino la normalità. Sono normali. E competenti. Lo dimostra il fatto che i videogiochi non cannibalizzino le altre abitudini di gioco: piuttosto si inseriscono tra gli altri consumi e così, oltre a giocare all'aria aperta con gli amici, o a praticare i giochi da tavolo, bambini e adolescenti di oggi videogiocano pure, costruendo delle diete di consumo tutto sommato abbastanza equilibrate. E in ogni caso non sono i videogiochi a rinchiuderli in casa: è piuttosto la mancanza di spazi urbani sicuri, il fatto che spesso il parco pubblico sia lontano da casa e richieda che un adulto ce li accompagni. Il problema sono ancora una volta gli adulti: gli adulti amministratori che non riescono più a progettare città a misura di bambino, gli adulti genitori che per scelta o per necessità si sono dati altre priorità.
E allora forse sarebbe tempo di smetterla di giocare al gioco del “noi e loro”. Il gioco del “noi e loro” è ciò che ci porta a dire che ai nostri tempi era tutta un'altra cosa, che ci bastavano due pezzi di legno e passavamo interi pomeriggi a giocare, che loro non sanno più cosa vuol dire fare fatica, che è tutto troppo comodo per loro. Ma il gioco del “noi e loro” è anche ciò che ci porta a dire che loro sono più svegli, che con le tecnologie digitali si trovano a loro agio perché ci sono nati (i famigerati “nativi digitali”), che riescono a fare tante cose allo stesso tempo perché “pensano in parallelo”. Ancora una volta si tratta solo di un dispositivo discorsivo. Serve a declinare le nostre responsabilità di adulti: serve a dire (soprattutto) a noi stessi che se sono diversi, in fondo, non è colpa nostra. Quel che occorre fare, invece, è rendersi consapevoli che non sono molto diversi da come eravamo noi. Solo così potremo accorgerci che sono migliori di come ce li immaginiamo (e di quanto ce li meritiamo).