Thursday, November 25, 2010

Lezioni digitali?


Il 25 novembre ho partecipato, a Bologna, a un seminario su scuola e tecnologie nell'ambito di Handimatica, la mostra-convegno su tecnologie e disabilità che ASPHI organizza ogni anno. Mi ha fatto molto piacere, sia perché sono amico di Piero Cecchini che di ASPHI è l'anima, sia perché sono un grande ammiratore dello straordinario lavoro che lui e i suoi collaboratori fanno da vent'anni a vantaggio di chi è portatore di qualsivoglia abilità diversa.
L'intervento che mi è stato assegnato portava il titolo di "Lezioni digitali". Su di esso mi sono esercitato, procedendo in due passaggi:
- la discussione del titolo;
- l'indicazione di cosa significhi costruire e gestire non una lezione digitale, ma una didattica significativa con le tecnologie in classe.

1. Il titolo si può (si deve) discutere, almeno in tre direzioni.
Anzitutto cosa vuol dire "digitale"?
a) Vuol dire "non analogico" (nel senso della Scuola di Palo Alto), cioè univoco nei suoi significati, non suggestivo, non plurivoco dal punto di vista semantico? Se così fosse, allora una bella lezione dovrebbe essere tutto fuorché "digitale".
b) Vuol dire "ridotto a contenuto digitale"? Ovvero, una lezione che diviene un Learning Oject, come accade nel caso delle videolezioni, delle clip didattiche. Non convince. Mancherebbe completamente interazione e una lezione senza interazione non è una lezione.
c) Quindi deve voler dire "svolta con il supporto di media digitali". A questa accezione mi attengo.
Veniamo al termine "lezione".
Lectio, nell'Università medievale, indica una forma didattica in cui qualcuno legge e commenta, gli altri ascoltano ed apprendono. La lectio implica magistralità: in questo sta il suo valore. Vedere all'opera un maestro (se è veramente tale) è straordinariamente formativo. Il digitale, invece, indica nel senso dell'interattività: se proprio mi devo immaginare una didattica "digitale", non me la immagino nella forma della lezione, ma caso mai del laboratorio.
Quindi: perché le lezioni dovrebbero essere "digitali"? Mi sembra, parafrasando Prensky, che la questione da porre non sia nei termini di una contrapposizione tra lezione tradizionale e lezione appunto "digitale" (dove l'implicito è di leggere la dialettica nel senso di vecchio e nuovo), quanto piuttosto di definire cosa renda eventualmente innovativa ed efficace la lezione "digitale".

2 . Qual è allora la proposta? La proposta è di ripartire dalle tre categorie che Prensky usa per definire i comportamenti digitali delle persone (stupidità, destrezza e saggezza digitale) trasferendole all'uso delle tecnologie nella didattica così da distinguere la stupidità didattica, dal tecnicismo didattico, dalla saggezza didattica.

Quando una didattica è stupida?
Quando concepisce la scuola come una polis media-resistente, la organizza come una provincia monomediale, la pensa come strumento di una vera e propria controcultura (Bohme, 2006). Una didattica di questo genere non valorizza le competenze degli studenti, non prepara al futuro: arroccandosi sulle sue pratiche vecchie confonde la salvaguardia della qualità con la sua incapacità di rispondere alle esigenze dell'oggi.
Ma una didattica è stupida anche quando confonde l'innovazione con l'aggiornamento tecnologico, agisce vecchie pratiche attraverso nuovi formati, mette al centro lo strumento e non i processi. Questa didattica non coglie il significato del cambiamento, inganna gli studenti, illude i genitori.

Quando una didattica è tecni(cisti)ca?
Quando assolutizza la funzione dei linguaggi, porta in primo piano le competenze tecnologiche dell'insegnante, adotta con correttezza formati e strumenti contemporanei. Ma anche quando interviene sulle pratiche tradizionali, le modifica e le aggiorna alla luce del nuovo, si pone questioni di efficacia rispetto agli apprendimenti dei soggetti.
Questa didattica, pur nella correttezza del suo operare, spaventa i meno esperti, non riesce a vincere le resistenze ma rischia di rinforzarle, può diffondere l'idea che alcune discipline rimangano comunque impermeabili all'operazione, promuove la coabitazione di due culture, la vecchia e la nuova.

Come si capisce occorre lavorare in funzione della saggezza. Ma quando una didattica è saggia?
Quando favorisce la riconcettualizzazione della tecnologia come risorsa culturale "normale" per la didattica (è quanto avviene quando il cellulare viene usato in classe per svolgere attività di apprendimento).
Ma anche quando riconosce il valore delle competenze che gli studenti sviluppano nell'informale rendendole funzionali agli apprendimenti di scuola (cfr. le 11 competenze "digitali" di cui parla Jenkins).
Infine, quando rideclina la propria vocazione strutturale (che rimane, al di là di tutti gli aggiornamenti digitali possibili, quella di accompagnare la ricerca di senso e la costruzione identitaria dello studente mediante l'appropriazione di cultura):
- usando molti linguaggi insieme;
- facilitando la ricomposizione dei saperi;
. promuovendo l'interattività e lo scambio;
- formando la competenza di analisi critica e di creazione responsabile dei contenuti mediali.

Saturday, November 13, 2010

Morselage cognitivo


Venerdì scorso sono intervenuto a Riva del Garda al convegno del Centro Studi Erickson dedicato alla "Tutela dei minori". La mattinata in cui ero stato invitato a relazionare (sulla fenomenologia dei consumi digitali dei giovani  e relative indicazioni per l'intervento educativo) era varia, per formazione dei relatori e argomento dei loro interventi. Ho imparato moltissimo. Soprattutto ho avuto modo di riflettere sulle ragioni che, quando è di qualità, rendono ancora la forma-convegno interessante e produttiva dal punto di vista intellettuale.
Ecco, in ordine sparso, cosa ho imparato.
1. Da Maurizio Ambrosini (Università Statale di Milano) ho recuperato una bella definizione di Beck, quella di "nazionalismo metodologico", a indicare (ad esempio) la pervicace chiusura con cui in un Paese come il nostro ci si ostina a considerare italiani pronipoti di nostri emigrati che sono nati in Brasile e non conoscono la nostra lingua e a non concedere la cittadinanza a figli di immigrati, nati e cresciuti nel nostro Paese, che parlano l'italiano addirittura con inflessione regionale (e a volte sanno il bergamasco molto meglio dei miei figli).
2. Grazie a Bruno Bortoli (Università Cattolica) ho conosciuto la figura di Charles Loring Brace, un visionario americano che è uno dei primi ideatori dell'affido. I suoi "treni degli orfani" sono, con tutti i limiti che l'esperienza poteva avere, un'idea geniale che negli anni ha regalato un futuro a centinaia di migliaia di bambini.
3. Erano presenti al convegno anche Gale Burford (University of Vermont) e Kate Morris (University of Nottingham), due dei "teorici" del metodo della Family Group Conference. Il loro metodo - ideato e applicato per l'affido dei minori - prevede 5 fasi che possono essere adottate (e lo farò) da chiunque nelle organizzazioni abbia la necessità di giungere a soluzioni negoziate e durature di problemi:
- opening and presentation (inquadramento del problema);
- information sharing (le condividono tutti i partecipanti);
- private time (coloro che devono proporre la soluzione vengono lasciati soli e si chiede loro la propsta di un piani);
- approvation (il piano viene discusso, approvato e sottoscritto);
- evaluation (se ne verifica l'attuazione).
4. Anche il concetto di resilienza (Paola Di Blasio, Università Cattolica) mi pare assolutamente interessante in un contesto come quello attuale in cui la necessità di rispondere a situazione traumatiche o particolarmente stressanti è molto diffusa.
5. Molti spunti, infine, sul ruolo degli adulti nella società odierna sono venuti da Mauro Magatti (Università Cattolica). La sua definizione dell'adulto come soggetto dislocato (tra tentazione giovanilistica e rischio della rottamazione), incoerente (perché "contenitore" universale in cui si addensano mille contraddizioni) e segnato dalla perdita del senso della propria posizione generazionale (tra un prima ed un poi) mi è sembrata illuminante.
Mentre ascoltavo e prendevo nota, riflettevo, appunto, su come stessi "usando" quel convegno, così lontano dai miei temi (il target erano assistenti sociali, educatori e psicologi che operano nei servizi per minori). Mi sono risposto che:
- ho ricavato indicazioni bibliografiche (tra le altre, Ulrick Beck, La società cosmopolita, Il Mulino, Bologna 2003);
- ho fatto euristica categoriale (concetti come quelli di "resilienza", di "nazionalismo metodologico", di "adulto dislocato", possono essere importati e applicati ad alcuni dei temi su cui lavoro);
- ho sperimentato l'efficacia del friends storing (nella società attuale le informazioni si ricavano più facilmente dalle proprie reti che dai libri);
- ho avuto conferme sull'importanza di lasciarsi fertilizzare da interessi di ricerca e approcci disciplinari lontani dai nostri.
Morselage cognitivo, dunque: e al di là di questo il piacere di incontrare amici e colleghi, ragionare in maniera distesa, ritrovare il piacere del confronto intellettuale. Proprio quello che l'Università di solito ti sottrae, presa com'è dai calcoli su minimi e crediti, dalla lotta senza quartiere per la conquista del potere (spesso solo simbolico), dalla stupidità che insegue il vacuo dimenticando che le gratificazioni vere (le uniche, forse) di questo mestiere stanno nel fare cultura e nel piacere di far crescere i giovani che, andrò controcorrente, sono sicuro saranno migliori di noi.